sabato 4 febbraio 2023

L'ultima Torre


L'uomo in nero era morto da molto tempo, Roland no.

Il vento soffiava leggero, il sole pomeridiano batteva forte ed il pistolero scrutava con lo sguardo la Torre dinnanzi a sè.

Ci erano voluti vent'anni, venti lunghi anni di tribulazioni e peregrinazioni in quel duro e inclemente deserto, fra le dune sabbiose e l'erba canina. Venti anni della usa vita spesi alla ricerca della Torre Nera, ed ora, come un cazzo di miraggio si presentava davanti a lui.

Si guardò.
La bisaccia vuota, neanche un filo d'acqua, gli stivali impolverati, la gola secca, le revolver arrugginite.
Eppure la Torre era davanti a lui, nella sua assurda, tetra maestosità. La sua destinazione finale. 

Roland deglutì a fatica. Aveva compreso che quello era il giorno che dava un senso a tutta la sua esistenza.
Quello era l'ultimo giorno della sua vita.
Il pensiero corse agli amici caduti lungo il percorso, aveva conservato per ognuno di loro un pensiero da portare ai piedi della Torre. 

Il vento soffiava più forte, senza alzare nessuna nuvola di polvere nell'aria.

Roland fece un passo avanti, guardò il cielo, e fece un profondo respiro
"CIELI CHIEDO LA VOSTRA PROTEZIONE!" urlò
"CIELI CHIEDO LA VOSTRA PROTEZIONE NELLA MIA ULTIMA DESTINAZIONE!"
"DIO DEL CIELO SII MIO TESTIMONE MENTRE VARCO LA TORRE!"
Poi guardò la sommità della Torre e si rivolse a lei.
"Neppure una pietra resterà di Te"

Estrasse le revolver che teneva ai fianchi, le accarezzo con i pollici...  erano davvero arruginite.
Avvicinò la pistola destra alla bocca e la baciò.
Fece un altro passo in avanti nei suoi stivali logori, e si incamminò verso l'entrata della Torre.

Neppure una pietra sarebbe rimasta di lei


venerdì 27 gennaio 2023

Il Giuramento














“Amor che null’amato, amar perdona”

Scriveva un poeta italiano, e qualche secolo più tardi un poeta minore ci aggiungerà un “porcocane”.
Francesco non sapeva dove precisamente dove si stesse dirigendo mentre attraversava Via dei Giardini, nel cuore di Roma,  non lo sapeva ma pensava a ancora a lei. Non era giusto e non se lo spiegava, perché doveva essere così? Perché doveva esser tormentato dal suo ricordo? Cupido aveva sicuramene sbagliato qualcosa quel bastardo, per condannarlo a perdere il sonno ancora per quella ragazzetta.

“Amar che null’amato amar perdona porcocane, lo scriverò sui cessi e nelle metropolitane”

La luna non era dalla sua parte quella sera, troppo piena e luminosa per dagli una speranza di cinismo, di materialismo che non voleva manifestarsi. Invece era una bellissima serata di inizio primavera, mannaggia, una serata in cui la dolcissima brezza notturna portava il profumo dei primi fiori appena sbocciati.

Fanculo tutto questo, e fanculo il suo cuore sensibile, ma si rimangiò subito il pensiero.
Si dice che tutte le strade portano a Roma, ma in quella notte tutte le strade portavano a lei, e senza rendersene conto  era arrivato davanti al suo portone, come nella famosa canzone di Venditti.
Che avrebbe fatto? Era davvero ancora il tempo di insistere? Era ancora il tempo di innamorarsi? Ormai aveva una certa età, era più conveniente pensare a mettere su una famiglia con una donna qualsiasi, sistemarsi, vivere una vita ordinaria. Per lo meno questo dai, chi si contenta gode, ultima fermata per quel treno. Tutti i suoi amici ormai avevano figli, avevano una meritata vita mondana, e vivevano la pace che lui non aveva ancora.
Arrenditi Francesco, accetta una vita comune, te la meriti. Al viaggiatore che non ha una meta nessun vento è favorevole.
Smettila di vagare, torna ad Itaca. Le sirene lo stavano seducendo.
Alzò lo sguardò ed inalò a pieni polmoni quel nettare di brezza. Non pensò a niente. Solo lui, la Luna, e il profumo dei fiori. Nient’atro.
Non avrebbe rinunciato  al suo cuore, questo era il giuramento che aveva fatto a sé stesso da ragazzo. Non avrebbe rinunciato, anche se la sua vita fosse diventata un’eterna ricerca, una croce da portare in vita. Il suo cuore era tutto ciò che aveva, e non lo avrebbe mai rinnegato. Non sapeva se quello che stava per fare era giusto, non sapeva se aveva senso, non sapeva se fosse importante ne avesse.

Fece un passo verso il portone, deglutì, e cercò con lo sguardo il nome del campanello.
Suonò il citofono, e una voce gli rispose.

 

 

sabato 6 dicembre 2014

Diario di un risveglio

Profumi di primavera, e apertura della bella stagione. Ben venga Maggio! Respiro la brezza dolcissima serale, profumata e calda e materna, e lentamente il cuore mi si allarga. Le pupille si dilatano, il battito rallenta, e nell’aria vibrante percepisco il piacere di essere vivo. Per la prima volta riesco a godere completamente del mondo, a godere completamente di me stesso, a godere pienamente dell’amore. Ora è tutto così chiaro e limpido, così semplice, è come essere tornato bambino, niente di più! Era così semplice. Finalmente penso di essere arrivato a poggiare il piede sull’altra sponda. Poi c’era lei, bella come un fiore, a guardarmi della spensieratezza della sua giovinezza. Non mi inganna, conosco bene il suo cuore, è antico e sa molte cose, forse più di me… un pensiero che mi piace. Eppure oggi lei è la mia primavera, una ventata di spontaneità così forte che mi muove quasi alle lacrime, che mi fa sentire il cuore divampare, che mi fa bastare tutto quello che ho. Restano solo da chiarire le nostre reciproche posizioni al riguardo, ma quasi non mi interessa. Sono completamente ebbro di questa stupenda eufonia di luce e odori e vino e bella stagione e cuore che canta, che mi sento già completo così come sono; e per questo sarà impossibile fallire. Non ho mai provato una determinazione così assoluta, ed una pace così profonda nel metterla in pratica. Sono cambiato nella mia interezza, ho finalmente varcato il cancello maggiore, dopo tanta, tanta ricerca della Verità. Finalmente, dopo vite, anni, mesi di ricerca sono arrivato alla risposta alla grande domanda, scoprendo che la domanda stessa non esiste. L’unica cosa che resta è una immensa gioia, una completezza e comunione con tutto, e niente più. Sono. Nient’altro.
Non commetterò più il peggiore dei peccati che un uomo possa commettere: Sono felice.

lunedì 27 ottobre 2014

Vita

Mattinata di primavera, primi raggi solari che scaldano.  Lungo la strada che conduce alla stazione ho attraversato  una nuvola di studenti. Piccoli ragazzini colorati, boccioli di potenziali che incrociavano la mia vi a come uno sciame di colorati insetti. E’ stata una sensazione strana.. dall’alto dei miei 30 anni e della mia mancata notte di sonno  potevo vederli con gli occhi della nostalgia, perché anche io ero stato uno di loro. Potevo leggere tutto su quelle facce: chi sarebbe diventato qualcuno, chi  uno spaccino, chi la figa della scuola.. non nascondevano niente, e io venivo investito da questo arcobaleno di facce annoiate e acerbe e vive.
Stavo andando a Milano, al Salone del Mobile, per tenermi aggiornato sul mondo del design, ma era un scusa per incontrare una ragazza. Aspettando il treno riflettevo sui millenni trascorsi in cui gli imperi, i re, i principi e gli uomini comuni si indaffaravano come pazzi per una figa, trascinando con sé l’intera storia della razza umana, e scandendone il ritmo con questa semplice, semplicissima brama.
Lei è arrivata, spensierata, a portarmi la vita, dall’altezza media dei suoi 22 anni.
Non era particolarmente bella, né colta, né altro, e spesso era inopportuna,  non aveva nessun motivo per cui mi sarei potuto innamorare di lei.
Che motivo c’era? Perché? Perché? Perché? Ma cosa ci trovavo? Era ancora una mocciosa, non avrei potuta definirla una donna… e allora come spiegare tutto questo desiderio di (tornare?) a lei?
Quando un’attrazione non la spieghi con la testa è doppiamente pericolosa, perché trova il suo inizio e la sua fine nel cuore, una zona sconosciuta, sede dell’arte, della bellezza e della vita, dove non si ha alcun controllo.
Era la primavera per me cazzo. Ed era pure fidanzata. Eppure non si tirava indietro.
Eravamo come due serpenti intrecciati, perfetta eufonia, e lo sapevamo.
Era l’irrazionalità fatta persona, e per questo la cercavo, dopo una vita di logica sentivo il desiderio di dissetarmi  alla fonte di un nuovo modo di capire. Era diventata il mio maestro per farmi capire la vita.
Notte, la giornata è passata in un attimo, mi lancia messaggi sul cellulare come coltelli, coltelli che vanno a segno. La luna è piena, profumo del fieno di primo taglio; sorrido alla brezza, non me ne frega un cazzo di niente,  ho imparato a sentire il cuore.

mercoledì 15 ottobre 2014

Vino e sangue

Quella notte per le strade di Milano si aggirava uno spettro, ed il suo nome era Lorenzo.
Strisciava lentamente i suoi stivali nella polvere e camminava ricurvo, chiuso nell’ampia cappa che gli incappucciava la testa.
Dalla cintola dondolava la spada, arma che aveva impugnato la sera prima con il timore di non poterlo fare mai più.
Strano periodo per vivere, quello. L’Italia del fine 1400 stava ormai diventando la culla della cultura umanista, per la prima volta l’uomo era visto come individuo e non come collettività, non più come servitore di Dio ma come servitore di sé stesso. In quel contesto trovava posto il fiorire della cultura, delle arti e delle scienze; e fra le scienze la guerra era una di quelle più esatte.
Lorenzo era un mercenario al soldo di una compagnia d'arme italiana, ingaggiata insieme ad altre dal ducato degli Sforza per difendere la città di Milano.
Il suo gruppo di armigeri non era molto grande, erano per lo più impiegati in azioni diversive ed assalti mirati alle linee nemiche, in questo genere di tattiche erano degli specialisti.
Tuttavia la sera prima era cambiato tutto. La compagnia di Lorenzo era stata incaricata della scorta di una decina di cannoni che doveva entrare a Milano, una missione non troppo rischiosa considerando l’assenza di forze nemiche nella zona, e poi comunque il lavoro è lavoro. Nessuno poteva immaginare che un’altra compagnia battente bandiera francese li stesse aspettando per un’imboscata. Nella sua mente echeggiavano ancora il fragore dei tuoni degli archibugi ed i lampi della polvere da sparo. Il fumo che invadeva la mulattiera di campagna che stavano attraversando, mentre la colonna di fanti italiani correva a disporsi a protezione dei pezzi d’artiglieria. Da ambo i lati della boscaglia circostante venivano le urla di guerra, seguite da ondate di soldati francesi… c’era veramente poco che si potesse fare di fronte ad una azione così ben congegnata. I ranghi dei mercenari si serravano in protezione del convoglio, le armi in asta venivano abbassate e si cercava in mezzo al tumulto di comporre uno schieramento. Per mezzora si oppose una tenace resistenza, per mezzora gli scudi avevano cozzato contro l’acciaio delle lame per poi infilare la carne e il sangue; ma il fuoco degli archibugi francesi era troppo insistente, e i soldati transalpini schierati in una formazione troppo letale, l’unica cosa che si poteva fare era cercare una morte gloriosa. Neppure quella era stata concessa a Lorenzo, ferito, caduto a terra e schiacciato al suolo dai fanti amici; l’unica maniera per uscirne vivo era fingersi morto.
Questi erano i ricordi che ancora gli affollavano le mente mentre camminava nel vespro milanese, consapevole che un mercenario senza una compagnia d’arme non è più niente. Tuttavia era vivo ed era dentro Milano, un luogo sicuro. E quella sera sarebbe stato accolto da un vecchio amico che gli avrebbe offerto perlomeno un pasto caldo ed un tetto. Per fortuna conosceva Adovardo, il più ricco mercante di vini di quella zona di Milano.
Ancora pochi passi ed ecco palesarsi il pesante portone della casa e dopo tre rintocchi ai batacchi eccolo schiudersi.
Adovardo era un uomo brizzolato sulla cinquantina, conoscente di vecchia data e grande amico, non impiegò molto a dar prova della sua ospitalità.
Abbracciò forte Lorenzo, e dopo essersi assicurato sul suo stato di salute lo invitò a prendere posto a tavola. Era a conoscenza di cosa avesse passato e di proposito evitò di farsi raccontare dell'esperienza della sera precedente, ora tutto quello che voleva era che mangiasse la sua zuppa e si rimettesse in sesto.
Il mercenario fra sè ringraziava che esistessero ancora amici del genere, e mentre la zuppa gli scaldava lo stomaco, il calore dell'amico gli riscaldava l'animo.
Iniziarono a discutere della minaccia di un assedio da parte dei francesi su Milano, e di come la vita nella città fosse cambiata, accorgendosi di come lo fossero anche le loro vite, dal loro precedente incontro.Il padrone di casa attese che il proprio ospite si fosse ristorato e poi lo invitò in cantina a bere una coppa di buon vino, come usavano fare da giovani, aggiungendo che si sarebbe unito a loro un altro ospite.
I due scesero lentamente le scale ed Adovardo aprì la pesante porta di legno di quercia. Il locale che si presentava era ricco di botti di pregevole vino di diverse annate, Lorenzo si chiedeva quanto il suo amico fosse diventato ricco per potersi permettere un simile tesoro.
La stanza era accogliente, con una lunga tavola massiccia al centro e delle panche ai lati, su una di esse li attendeva l'altro ospite.
Era un uomo vestito sobriamente, eppure nella sua semplicità esprimeva eleganza; lo sguardo era severo e gli occhi penetranti. Si presentarono stringendosi la mano ma non disse il suo nome.Lorenzo pensò che forse nell'attesa si fosse scolato così tanto vino da non riuscire più a parlare.
Adovardo spiegò che era un amico di famiglia, amico di suo padre e prima di lui di suo nonno.. una spiegazione che non reggeva, quanti anni poteva avere quest'uomo? Tuttavia Lorenzo non era propenso ad indagare, e accolse quella frase con un cenno del capo.
I due si sedettero ed iniziarono a bere un ottimo vino speziato, seguitando a discorrere fra di loro. Solo l'ospite senza nome taceva, li guardava con occhi seri e gustava lentamente la coppa di vino. Non era chiaro il suo ruolo, o meglio che razza d'amico fosse: probabilmente si trattava di un mercante con cui la famiglia di Adovardo aveva rapporti d'affari. Il mercenario ormai era rilassato, dimentico per il momento della crudezza della sera precedente, e nonostante stesse bevendo con un musone sconosciuto l'atmosfera era deliziosa.
Un momento piacevole interrotto troppo presto, dal piano di sopra giungevano voci e rumori troppo pesanti per la casa di un commerciante; seguiti dal suono di due paia di passi che scendevano le scale frettolosamente. La porta semichiusa della cantina si aprì di scatto e fecero l'ingresso due uomini, ben vestiti e con la spada sguainata.
"E' questa la maniera di entrare in casa di persone rispettabili? chi siete?" chiese Adovardo.
Gli fecero eco gli intrusi "sapete benissimo messere perchè siamo qui, consegnateci il vostro ospite e ce ne andremo anche subito"
Era corsa la voce su chi stesse ospitando.
L'uomo senza nome, si alzò e fece per andar loro incontro, ma Lorenzo, deciso a ricambiare l'ospitalità con la spada, era già in piedi intento a staccare uno scudo ornamentale dal muro. Una volta infilatolo al braccio estrasse la spada dal fodero e assunse una guardia di attacco nei confronti dei due.
"non so chi è lei, ma se ci minaccia non esiteremo ad attaccare"
E dopo un momento di attesa lo fecero. Si scagliarono insieme contro Lorenzo che li stava attendendo in posizione. L'esperienza d'arme maturata negli anni fece la differenza, si difendeva con la rotella dall'aggressore a sinistra, mentre parava con la lama della spada i colpi dell'altro. I due guadagnavano terreno e Lorenzo arretrava, l'ospite conteso osservava la scena con occhio fermo e severo. Fu l'intuizione di un attimo, ed il mercenario apriva la difesa di uno dei bruti e gli trapassava la spalla destra. L'altro attaccò per tre volte, prima che il suo polso finisse schiacciato fra il muro e lo scudo; di fronte ad una tale pressione la mano si apre e lascia cadere la spada lasciando il fante senza protezione. Lorenzo minacciava con la punta della lama l’avversario ferito, mentre quello disarmato indietreggiava indovinando con i piedi i gradini. La faccia del guerriero vincitore ora era distesa in un mezzo sorriso, aveva avuto la sua piccola rivincita dal disastro dalla sera precedente, aveva veramente bisogno di vincere di nuovo, di sentirsi un buon combattente.
In quel momento un fulmineo dolore gli lacerò il braccio destro. Girandosi vide lo sguardo severo dell’ospite e le sua mano sinistra serrata intorno ad un pugnale che gli strisciava il braccio. Quel bastardo l’aveva ferito a tradimento! Gli incursori ne approfittarono per fuggire, Lorenzo con uno scatto si era distanziato dall’uomo senza nome, aveva una gran voglia di sbatterlo al muro, ma si limitò alle parole
“siete ammattito stolto di un pazzo? È questa la maniera di ringraziare chi vi salva? O preferite che vi consegni ai vostri due amici?”
L’uomo si girò e si sedette al tavolo, fece scivolare il sangue dalla lama del coltello dentro la propria coppa di vino e per la prima volta parlò
“chiedo scusa messere, necessitavo del vostro sangue in quel preciso momento”
Adovardo si guardava intorno imbarazzato e pallido, come di chi sa un segreto, ne vuole parlare, ma non sa come iniziare.
D’un tratto per Lorenzo fu tutto chiaro
“Feccia della cristianità, bevitore di sangue! Ora vi vedo per quello che siete, vampiro! Quale tetro personaggio avete portato a maledire la vostra casa, Adovardo?
Li paga cari i vostri vini che gli rammentano il sapore del sangue?”
Adovardo era paonazzo
“No Lorenzo, siete in errore, non è quello che pensate”
“Ora capisco, quelle due povere guardie cittadine che ho battuto… erano venuti per consegnarlo ad un giusto tribunale! Sia maledetta la..”
“Sono un alchimista.”
Per la seconda volta aveva parlato lo strano figuro. Ora stava mesciando nella coppa il vino misto al sangue, per poi versarlo in un’ampolla.
“Chiedo perdono per i mie modi, ma mi serviva del sangue colto mentre era scaldato dal fuoco dell’impeto. Vi ripagherò la riparazione alla manica che ho lacerato. Per le ferite invece so che per voi mercenari sono un vanto”. E accennò per la prima volta un sorriso.
Ora Lorenzo era ancora più sconcertato. Si sentiva anche un po’ stupido con ancora le armi in mano, così le depose e si sedette al tavolo in silenzio. Prese la testa fra le mani ed arruffò i capelli, come se stesse cercando di rimettere ordine nei propri pensieri, poi guardò l’alchimista.
“Così siete un alchimista.. ed il mio sangue vi serviva per?..”
“Conosco la famiglia di Adovardo da tre generazioni, conoscevo suo padre, ed il padre di suo padre prima di lui. Su mia indicazione producono un tipo speciale di vino, che è il diluente essenziale per le mie sperimentazioni. D’altra parte è il liquido che nostro signore ha scelto come veicolo del proprio sangue”.
“Si ma perché il mio sangue?”
“Come ho già detto necessitavo di sangue colto nell’ardore della battaglia. Non era una cosa prevista, ma viste le circostanza ne ho profittato.”
“Siete un bel soggetto voi! ma lo scopo qual è?”
“L’ho già detto, sono un alchimista, e come tale non posso rivelare i miei segreti”
“Almeno ripagate il sangue rubato dicendomi il vostro nome”
“mi chiamo Edmond”
Ora era Adovardo a prendere la parola “Ora conoscete la natura del mio nobile ospite caro Lorenzo, e avete capito che i due aggressori di prima erano guardie cittadine che volevano consegnarlo all’autorità ecclesiastica. Purtroppo l’alchimia non è vista di buon occhio, nonostante i nuovi tempi che viviamo”
“E voi caro amico quanto rischiate per questo?”
“Oh, la mia famiglia è abbastanza influente per permettersi di queste cose, e poi con l’assedio francese alle porte il ducato ha cose più pressanti di cui tenere conto”
La pace era ristabilita all’interno della cantina, niente più aggressioni esterne né misteri fra commensali, era il caso di levare le coppe e unirsi in un brindisi notturno. D’un tratto si sentì un picchiettio sommesso provenire dal lucernario in fondo alla stanza. Edmond si alzò e si diresse con passo deciso verso la finestra basculante aprendola con un gesto della mano. Dall’altra parte un grosso corvo nero entrò in volo nello stanzone, compiendo due giri e poi appollaiandosi sulla spalla dell’alchimista.
“Sei tornato Muninn”, poi inclinò l’orecchio verso il becco del pennuto, come a volerne ascoltare il flebile respiro, ed il suo viso si fece corrugato.
“Il mio corvo è foriero di gravi nuove. Ha visto l’esercito francese prepararsi per l’assedio, vogliono attaccare questa notte stessa.”
I presenti ammutolirono. Lorenzo aveva sgranato gli occhi “Maledetti sono stati veloci come diavoli! Sappiamo che sono armati di pezzi d’artiglieria di nuova concezione. Per loro sarà facile aprire la breccia nelle vecchie mura di Milano”
Adovardo balbettava “Ma, ma… io qui ho una villa ed un’attività. Come farò?”
Gli rispose Edmond “La vita è sacra, pensa a salvaguardare quelle e quella dei tuoi cari. Ascoltatemi entrambi, l’esercito sarà alle porte quando la luna sarò alta. E’ abbastanza tempo per radunare quanto potete trasportare ed avvisare chi vi è caro. Partiremo insieme e lasceremo questa città”
Lorenzo guardò in basso, non aveva niente da portare con sé, né una persona cara da avvisare. L’alchimista sembrava indovinare i suoi pensieri “non ti crucciare, hai meno fardello da portare sulle spalle”. I tre bevvero l’ultimo sorso in silenzio.
La luna era alta e chiara sulla notte di Milano, ed un carro si stava incamminando silenzioso sul selciato. Sopra, Adovardo e la sua famiglia in grande apprensione, a piedi il mercenario e l’alchimista. Percorsero mestamente il cammino che li separava dalla porta ovest della città e la lasciarono senza guardarsi indietro. Il buon mercante aveva gli occhi lucidi e tratteneva a forza le lacrime, doveva essere da esempio per i suoi figli. Per la prima volta Edmond sembrò provare affetto “non preoccupartevi mio buon amico, a Firenze conosco molta gente. Lì la mia arte è tollerata, vedrete che saprete rimettervi in sesto e la vostra famiglia tornerà a produrre i migliori vini della città”, Adovardo apprezzò e gli pose la mano sulla spalla, singhiozzando.
Lorenzo lo guardò “anche il vostro fardello, alchimista, è bello leggero, neppure voi avete qualcuno da portare appresso” “Ti sbagli Lorenzo, non vedi quel cavallo marrone là in fondo e quell’uomo tremante che lo cavalca?”
Effettivamente c’era qualcuno in fondo all’oscurità, e si avvicinava intirizzito “Edmond, vi ho aspettato dove mi avete detto, ci stiamo dirigendo a Firenze quindi? Buonasera messeri io sarò vostro compagno lungo questo triste cammino, ma se c’è lui so già che ce la caveremo”
“Non ti preoccupare Leonardo, tu vivrai a lungo, il mondo ha bisogno di te più di quanto tu abbia bisogno di lui. Qui sei l’unico che non deve temere il proprio futuro”
“Sarà come dite, ma siano dannati i francesi se toccano la mia statua equestre! Ci ho lavorato anni solo per il prototipo, nessun uomo assennato leverebbe la mano contro l’arte, non ho forse ragione?” L’alchimista fece un profondo respiro e preferì tacere gli usi degli arcieri francesi.
La carovana si incamminava nel fitto cuore della notte, rischiarati solo da una grande luna d’argento; in lontananza il primo cannone aveva strappato il sonno ai milanesi.
Edmond iniziò a cantare una strana canzone, il testo non aveva nessun senso, ma stava calmando i nervi a tutti. Lorenzo pensava che quel pazzo di uno stregone ne sapeva una più del diavolo. L’alchimista si girò e gli sorrise, sapeva che i loro destini li avrebbero resi amici ancora per lunghi anni.

domenica 5 maggio 2013

Ade


Era da sempre in quella prigione, da sempre.
Non aveva nozione di quando la sua prigionia avesse avuto inizio, forse da quando era nato; o più probabilmente le mura si erano ristrette gradualmente con gli anni, a cominciare dalla sua infanzia. Lo  spazio era angusto e in penombra, edificato nel cemento grigio, gli unici colori che vi si trascinavano all’interno erano le diverse sfumature della cenere.
Eppure in quel mare d’ombra non era da solo, altri detenuti vivevano la sua stessa sventura, una marea di corpi umani si avvicendavano in quelle quattro mura, larghe a dismisura per contenerli tutti, eppure paradossalmente strette.
Ognuno di loro era intensamente assorto nelle proprie mansioni giornaliere, lo spettacolo era il più vario che si potesse ammirare.
c’era chi correva da una parte all’altra della cella senza curarsi di dove stesse andando o del perché, semplicemente correva senza essere consapevole di nient’altro.
C’era poi chi collezionava sassi, passava l’intera giornata a cercarne qualcuno in ogni anfratto, in ogni centimetro già esplorato, a sgretolare pezzetti di muro ricavandone pietruzze. Poi li ammucchiava e si faceva vanto di quanti ne avesse raccolti, trasformando quella miserabile illusione nel proprio orgoglio.
C’era chi per passare il tempo si chiudeva nella propria mente, pensava e pensava,  e nel farlo diventava inesorabilmente ottuso. Si creavano così piccole filosofie sulle varie tonalità del grigio e quale fosse la più appropriata, giudizi sul comportamento dei carcerati e sul loro aspetto, visioni così ristrette e complesse che la semplice e nuda cella non vi riusciva ad entrare tutta.
C’era anche chi si impiccava, ma questa era una netta minoranza, i più preferivano vivere le loro vite inventate, e all’ombra dell’eterno crepuscolo arrivavano a convincersi di essere felici.
Anche lui era come loro, come alcuni di loro, e meccanicamente correva da una parte all’altra di uno strano percorso, con la rincuorante e cieca giustificazione che si ha da farlo. Erano settimane, mesi, anni che si spostava ritmicamente da una parte all’altra della cella in un gioco demente, e nel farlo non aveva mai avuto nemmeno il tempo di guardarsi attorno.
Quel giorno però era diverso, quel giorno era il suo giorno; e così, quasi senza motivo, decise di fermarsi. Il cervello gli diceva di rimettersi a correre, i muscoli guizzavano pronti a spronarlo alla nuova corsa, il cuore gli martellava le orecchie per non farlo pensare.
Eppure non si rimise a correre.
Per la prima volta si fermò, consapevole di essere fermo.
Per la prima volta diede uno sguardo a cosa lo circondava. Per la prima volta prestò ascolto ai rumori circostanti, e scoprì un infinità di sfumature e suoni. Intorno a lui c’era un mondo pieno. Allora fece un profondo respiro, una gran quantità di odori gli invase le narici, ne fu stupito dal momento che non era più nemmeno sicuro di sapere come si fa ad annusare. In quel lungo momento si guardò attorno, e con gli occhi riuscì a catturare la grandezza della cella, le sfumature della luce buia che entrava dalle inferriate, la grande bellezza e la soffocante desolazione di quel bizzarro posto. Così fece ciò che nessuno aveva mai fatto, si diresse con passo lento e deciso verso le inferriate alle finestre. Le strinse con le mani fino a sentire il freddo sui suoi palmi, avvicinò la faccia e guardò fuori. Il mondo esterno esplodeva in una moltitudine di colori: c’era il verde degli alberi, l’azzurro trasparente dell’acqua, il solido ocra delle rocce, il profondo blu del cielo spruzzato di nuvole, la calda luce del mondo libero.
Assorbito da quella visione cercò di abbracciare l’intero paesaggio con gli occhi, lanciando lo sguardo oltre il sole.
E capitò un miracolo, ora il mondo che osservava aldilà delle sbarre non esisteva più; mentre quello dal suo lato stava sbocciando in una primavera di colori. Senza rendersene conto si era ritrovato dall’altra parte delle sbarre. Era sempre stato dall’altra parte delle sbarre!
Una infinita gioia era esplosa dentro di lui, la cella non era mai esistita, i muri grigi ed angoscianti non erano mai stati; nei suoi anni non s’era mai accorto di essersi sempre scaldato al sole dell’eterna primavera.
I suoi ex compagni di cella, non avevano avuto la sua comprensione, si agitavano ancora convulsamente convinti di vivere in cattività, sette miliardi di corpi.
Non erano persone ma spettri, macchine di carne che danzavano.
Ora non aveva importanza, all’orizzonte si vedevano persone libere che si aggiravano nei profumi della magnolia.

martedì 11 dicembre 2012

Luna piena

La luna era bianca ed immensa e bagnava l'intero piazzale del suo chiarore mentre il cielo terso tradiva l'inizio uggioso di un novembre.Paolo stava bavendo la sua birra fuori da locale, gustandosi quello che poteva di quella bevanda scadente e senza troppe pretese, comprata in economia dal bar in nuova gestione. Era ubriaco, ma non quell'ubriachezza che ottenebra i pensieri, ma piuttosto un ebbrezza che catalizza le idee e toglie i veli dalla percezioni mondane; chissà se gli antichi miti dionisiaci contemplassero questa peculirità, temo non lo sparemo mai.
Riti dionisiaci o no, la birra fa pisciare, e così Paolo fu costretto a separarsi dalla visione di quel perfetto astro rotondo e a dirigersi verso la toilette del locale.Mentre espelleva il liquido che fino a dieci minuti fa era stato il suo nettare si mise a contemplare, contemplare il luogo in cui si trovava, contemplare il tempo  in cui viveva, contemplare sè stesso. In quel momento, scevro da pensieri, si rese conto in un solo lungo attimo della natura della vita.Lui come tutti aveva un nome, una ideantità, un rulo sociale e tutto ciò che ne deriva... eppure cos'era questa sua vita in confronto all'eternità? cos'era lui, se non un goffo attore che cerca di nascondersi dietro ad una maschera per un tempo che è e sarà sempre effimero? il suo sguardo mentale si allargò alla sua possibile esistenza prima di essere un umano, al suo futuro, e comprese in esso il travagliato percorso incerto di tutta l'umanità. Tutto era niente di più di un palconscenico, e lui e ogni altra persona che anneriva i propri piedi in questo mondo non era di più che un attore occasionale. Perchè prendersela quindi per i propri problemi? a conti fatti essi non esistevano.. Perchè stare male per quello che non si può ottenere? lui era molto di più del ruolo che interpretava, e i suoi desideti inappagati facevano stupidamente parte del suo personaggio. Perchè mantenere quella maschera umana? lui era il tutto, perchè limitarsi a nascondersi dietro a pelle, personalità, fuliggine e freddo? Da quel cesso Paolo uscì come una persona diversa, forse solo per dieci minuti, forse solo per una sera, o forse solo per il tempo di metterlo per iscritto; ma comprese e in quella comprensione vide la vera natura delle cose.
Camminò fra la gente con un sorriso fra le labbra, ogni cosa gli sembrava effimera e per questo bellissima; ogni persona, ogni azione era uno spettacolare soffio di sabia nel vento che non sarebbe stato più. Il tempo stesso divenne artefice ed artista di un mondo che si plasmava e si distruggeva nel giro di un attimo, ravvivando potentemente la sua fulgida bellezza.Con questa consapevolezza si avviò, anonimo in mezzo alla gente, godendo ogni momento, ogni attimo, di questa immersione nello straoridnario che è la vita umana quotidiana. Per un attimo provò una sincera compassione per chi si immedesima troppo nel proprio ruolo, assuefacendosene, restandone schiavo fino a che la compassionevole morte non gli concede la falce come grazia.Ma non erano pensiero per lui, non più, ora camminava fra gli uomini, sopra gli uomini, ed il suo unico desiderio grande era di tornare fuori, a dissetarsi a quella luminosa e  intensa luna piena.

mercoledì 15 agosto 2012

La veglia notturna


Stava tornando da una festa, giusto il tragitto da percorrere a piedi per arrivare alla macchina.
Era una sera d'estate ed il vento soffiava forte e caldo, una delle sensazioni che preferiva in assoluto.
C'era da andare a casa, era tardi, c'era da preparare le cose per il lavoro del giorno dopo, c'era da andare a letto e riuscire a dormire almeno sei ore, c'era da fare tante cose...  e poi anche se i suoi problemi di colpo fossero spariti, ci sarebbe stato conunque sempre da arrovellarsi, la questione non era tanto la mole di cose da sistemare, quanto piuttosto lo stato metale in cui viveva.
La sua mente era un groviglio carnevalesco di idee, pensieri, doveri, ricordi e progetti

E per inciso ogni uomo sulla terra vive così.
Preda di questa rete di pensieri amminava con passo veloce, noncurante, con la cieca sicurezza di un sonnambulo.

Poi, non seppe neanche lui perchè, rallentò il passo.
Di colpo il moto perpetuo delle idee rallentò bruscamente, e con grande sorpresa si fermò. 
Per la prima volta stava guardando il mondo attorno.
Di più, lo stava ascoltando. Le pupille si allargarono ed un moto di stupore si disegnò lentamente sul suo viso; per la prima volta dall'inizio dell'estate stava osservando in silenzio la calda notte estiva.
La luna era piena ed illuminava delicatamente i rami degli alberi che la incorniciavano, il cielo era schiarito in un alba perpetua che trasformava il mondo nel più bello dei paesaggi onirici.
Di colpo si fermò e sin sè  mise ad ascoltare, e udì quello che non aveva mai udito. La notte era uguale a tante altre che erano passate prima di lei, identiche e senza un volto.
Eppure questa era speciale. Quello che avevo attorno era il paradiso, non un luogo fisico, ma uno stato dell'essere.
Si accorse di non star pensando a niente, la mente non è adatta ad indagare il mondo che gli si stava schiudendo, le semplici sensazioni gli stavano regalando una pienezza che pochissime volte aveva provato nella sua vita.
Fermò il passo. respirò a pieni polmoni e per una volta si sentì completamente vivo. 

In quel momento era sveglio. Non perchè non dormisse, ma perchè rispetto al resto delle genti era conapevole di essere.
Questa è una cosa rara, gli uomini durante i loro giorni camminano proiettandosi in pensieri, opinioni, progetti e luoghi inesistenti, pianificando, riflettondo, e perdondo la coscienza di essere vivi. 
In quel momento di inaspettata veglia poteva vedere la totalità della creazione attorno a sè; i boschi parlavano, non a parole, ma con la propria essenza, bisbigliavano incessantemente e lui poteva distinguenre il suono. I grilli notturni cantavano un linguaggio che poteva capire, cantavano le canzoni della sua infanzia. Il vento caldo si era alzato e lo pervadeva completamente, trasportava l'essenza stessa della notte d'estate e riempiva ogni sua cellula del vero significato dell'essere vivi.
Non esisteva più niente, solo lui, il magnifico mondo intorno e la vita, perfettamente fusi in un solo essere.
 Fece un sorriso beffarso, in realtà aveva già provato quella sensazione, ma mai in maniera così lucida; riprese la marcia verso l'auto.

Ora aveva un segreto in più. Ascoltare è la chiave per vegliare, vegliare è la chiave per la vita.
Tornava a casa in macchina, godendo ancora di quella bellissima essenza, che si schiude solo a chi lascia il mondo degli uomini alle spalle e sa percepire quello vero.

sabato 31 marzo 2012

Lapis

Stava lavorando nella sua stanza da anni, ormai erano diventati sei. Quello stanzone al piano terra della casa era diventato il suo laboratorio, un posto magico dove Faust passava gran parte dei suoi pomeriggi e delle sue lunghe notti insonni. L’ambiente era ampio, frammezzato da pilastri di legno, le finestre erano piccole e larghe, il soffitto troppo alto, e la luce fioca che entrava gettava manciate di ombre caotiche sul pavimaneto e sui muri. Al centro due lunghi tavoloni massicci coperti completamente da libri, contenitori di piccoli metalli, alambicchi ed ampolle di ogni forma. In fondo alla stanza, una minuscola postazione con un forno ricavato da un camino, una libreria zeppa di materiale chimico catalogato in contenitori di vetro.. e ancora tavoli e tavolini tempestati di fiale e provette in un valzer degno di un folle. Quello era lo studio di un alchimista, il posto per eccellenza dove le chimere della mente umana prendono vita. Ormai Faust sapeva tutto su quell'arte, aveva letto le opere di ogni maestro, compresi i cosiddetti libri nascosti e quelli eretici, aveva sperimentato la via umida, quella secca, e quella di mezzo;  studiato i simboli con estrema attenzione e trovato la chiave ad ogni enigma che gli si era presentato.  Ma ciò che gli dava un fremito d'orgoglio non era l'erudizione degli scritti, quanto piuttosto i suoi successi con i metalli. Si era scottato le mani in ogni punto possibile, con ogni sorta di metallo fuso e con ogni tipo di fiamma. Ora, in quel pomeriggio d’inizio autunno del 1920, contemplava il suo laboratorio guardando il nulla.. finalmente aveva finito.
Aveva infine compiuto la Grande Opera, aveva trovato quello che a tantissimi è negato, era riuscito a sciogliere i segreti ultimi della creazione. Ora quella stanza era più sacra di qualsiasi santuario, perchè su di un piccolo tavolo vicino al forno giaceva una pietra cristallina di colore rosso, la tanto bramata pietra filosofale. Faust fissava il vuoto con occhi sbarrati, seduto molle sulla sua sedia preferita; era quasi scandalizzato dal suo successo, ebbro della riuscita dell'impresa. Poi, fiaccamente, simile a chi si è ripreso da un immenso sforzo, si era spostato alla finestra per ammirare Parigi che si crogiolava nell'ennesimo crepuscolo; nonostante tutto era un piacere che lo rasserenava sempre. Pensava ai suoi tomi, alle illustrazioni dei vari leoni che mangiavano il sole, ai serpenti crocefissi su altrettante croci, ai grifoni che vegliano i giardini di rose bianche e rosse.. ora tutto quello non aveva più importanza, ora tutti quei simboli erano sciolti e condensati in una piccola, minuscola pietra dura. Solve et coagula.
Ciò che l'aveva attirato verso quell'arte era lo scopo reale dell'alchimia, molti pensano che sia la mera trasmutazione dei metalli e questo è un errore grossolano, quello è soltanto un effetto collaterale dell'uso della pietra filosofale. Il vero obiettivo è la sapienza per arrivare ad essa, il percorso, l'iter per arrivare alla meta. La Lapis Philosophorum è la materia pura da cui derivano tutte le altre per accomodamento, come recita un antico testo di Ermete il Trismegistro. Ritornare ad essa, ricrearla dalla materia grezza, è un processo sacro che conduce dal molto all'uno, significa imboccare una strada a ritroso nella creazone della materia dove la destinazione è Dio. La pietra stessa è la rappresentazione materiale di Dio. Faust lo sapeva, e la fissava con sguardo rapito; ecco spiegato il motivo del suo smisurato e sacrilego compiacimento. Ma ora era stanco, il suo corpo appesantito, la mente assonnata, si sarebbe presto ritirato a godere del meritato riposo, un sonno dolcissimo.
La luce del mattino del giorno dopo gli ricordò il suo appuntamento con fratello Gerard, un frate carmelitano, stimata persona e carissimo amico d'infanzia. Non riusciva a pensare a persona migliore a cui mostrare il suo segreto, Gerard faceva parte dei suoi ricordi più teneri fin da quando ne aveva memoria. Lentamente le poche ore che separavano il loro incontro si riempirono dei gesti quotidiani della mattina; anche se per la prima volta Faust non aveva alambicchi da controllare, nè fuoco del camino da ravvivare; a ben pensarci si sentiva come se fosse in vacanza per la prima volta dopo anni di febbricitante lavoro.  Sul tardo pomeriggio i pesanti battiporta del portone rintoccarono, e l'alchimista si affrettò ad accogliere l'amico con un sorriso semplice ma che tradiva la solennità e l'orgoglio del momento. Dopo i saluti, gli abbracci e le strette di mano  di rito, si erano accomodati, discutendo bonariamente del più e del meno, davanti ad un biccheire di Cabernet rosso sangue. La screziatura del colore faceva tornare alla mente di Faust i riflessi purpurei delle pietra, e mentre i suoi occhi erano assorti iniziò a spiegare all'amico il motivo della sua convocazione. Gerard sapeva del suo interesse e della sua passione per l'arte ermetica, ma come frate dell'ordine carmelitano era molto cauto sull'argomento. La posizione della chiesa non era chiara, storicamente caratterizzata da alti e bassi; prima con monaci alchimisti e poi con la condanna e la proibizione della pratica. Era pur vero che si era agli inizi del '900, tempo di cambiamenti e grandi rivoluzioni tecniche, ma l'achimia restava sempre un terreno pericoloso,  dove sacro e profano si intrecciano e danno spesso adito a risvolti non sempre graditi. Fu con questi pensieri in testa che il monaco ascoltò minuziosamente, con gli occhi ora socchiusi, ora sgrantai, il racconto dell'amico. Terminato il racconto Gerard era perplesso, voleva veder con i propri occhi un tale prodigio condensato in materia, voleva vedere com'era fatta la chiave della creazione e se essa potesse possedere anche solo un pallido riflesso del volto del creatore di ogni cosa. Faust non aspettava altro, lo condusse nel suo laboratorio, e sopra di un panno di seta nero gli mostrò il suo bene più grande. L'emozione lo vinse e gli si bagnarono gli occhi mentre il monaco esaminava con attenzione l'oggetto, stando ben attento a non toccarlo, dopotutto era un uomo di chiesa, sapeva con che rispetto trattare gli oggetti sacri. Poi lo guardò, il corpo abbandonato sulla sedia, sulla bocca un sorriso sincero "E ora cosa ci farai, mio buon Faust? immagino ti ritaglierai una posizione sicura con l'oro che produrrai, e scriverai un libro ermetico sulla strada che ti ha condotto sino a questo risultato. Ma ricorda che quello che hai prodotto è la materia principale di Nostro Signore, abbine il massimo rispetto nell'usarlo". Sapeva che era una raccomandazione superflua, ora l'amico era un sapiente, solo il fatto che fosse approdato a quei lidi testimoniava il suo buon senso.  Fuori il pomeriggio si stava lentamente sciogliendo in un vespro settembrino, le ombre si facevano più lunghe mentre il sole calante pennellava il cielo dei toni del giallo e del porpora. I raggi obliqui entravano facilmente dalle finestre rendendo il momento ancora più solenne. Lo sguardo dell'alchimista cambiò prima lentamente, poi radicalmente; si era fatto cupo, la testa bassa, gli occhi sfuggenti, come di chi sta per fare una confessione "Ho scoperto un'altra cosa Gerard, la sostanza può essere combinata"
"Non è possibile Faust, la pietra filosofale è la sublimazione di ogni cosa, la più pura e rarefatta essenza, come può essa combinarsi con qualcosa che le sia anche solo minimamente inferiore? è risaputo che mescolandola con qualsiasi materiale essa lo porta al suo massimo grado evolutivo,  oro o un suo corrispettivo. Come può essa legarsi con qualcosa, visto che ogni cosa al confronto le è vile?"
Faust taceva, poi lentamente parlò "dici il vero, la pietra è materia prima di ogni cosa e riflesso dell'essenza divina, tuttavia nei miei studi sono incorso in una singolarità... all'inizio non volevo crederci ma poi tutto ha acquistato senso..".
Alzò lo sguardo ed i suoi occhi erano spalancati, la bocca aperta in uno sgraziato sorriso, l'intera smorfia sembrava quella di un demonio a guarda delle cattedrali, o alternativamente di un pazzo che aveva compreso il valore della pazzia. "Sangue umano, Gerard.”
Il carmelitano ebbe un sussulto, ma si trattenne e fece cenno all’amico di continuare
“Qual'è stata l'opera più grande di Nostro Signore oltre alla creazione?" Il frate sapeva la risposta e questo lo turbò, gradualmente la sua pelle cominciò a divenire pallida. Faust continuò "l'essersi fatto carne, l'aver trasmutato la sua essenza divina in un corpo di pelle, ossa e sangue; essersi incarnato nel figlio dell'uomo. Pensa, l'infinito resosi manifesto nel corpo della creazione del sesto giorno! l'essenza divina riposta non in un una pietra rossa ma in questo sangue" Gerard lo fissava con sguardo torvo, la mascella serrata, i nervi tesi sulla pelle delle mani tradivano il suo nervosismo. Una leggera pioggia aveva preso a picchiettare sull'asfalto e sui vetri, attutendo i suoni del mondo esterno.
L'alchimista incalzò con gli occhi che gli brillavano per l'eccitazione: "combinando la pietra filosofale con il sangue umano si può ottenere una ricombinazione dell'essenza primaria, si può mescolare la sua parte divina con quella umana! Non capisci Gerard? si può ottenere il sacro tesoro di Dio incarnato nell'uomo! l'essenza divina fatta carne può essere sintetizzata!”
Per Gerard tutto ciò era ben oltre il suo grado di sopportazione ed esplose: "Questa è eresia! E' bestemmia Faust, e tu la sai!" Il frate era rosso di collera, le vene gli si gonfiavano ritmicamente pompando grandi dosi di sangue. "I tuoi esperimenti ti hanno fatto impazzire, non puoi parlare sul serio!"
"la maniera di combinarla esiste, la natura lo ha permesso.."
"La natura è soggetta a Dio! ci sono cose che l'uomo non può fare! non permetterò mai che questo esperimento veda la luce, non ti farò compiere una tale sacrilega blasfemia!”
Improvvisamente i due si trovavano ai ferri corti. Faust aveva sperato che l'amico potesse capire la grandiosità della sua opera, ma forse in cuor suo sapeva che era chiedere troppo ad un uomo di fede. Tuttavia  era veramente troppo fornire ai cercatori di Dio una scala per accorciare le distanze? Era così fuori dal mondo conseguire quello che loro hanno sempre desiderato? Erano stati questi pensieri a spronarlo a rivelare il suo segreto, e ora non intendeva, né poteva, tornare indietro. Abbassò gli occhi, come se provasse una passeggera vergogna "Veramente io Gerard... io l'ho già fatto.." ed estrasse una fiala da sotto la veste.
"ho combinato parte della pietra con mezza fiala del mio sangue.. le ho sciolte insieme fino ad ottenere questa tintura rossa. Sono al loro massimo grado di fusione, non si può ottenere di più" La voce del povero frate ora era debole, quasi supplichevole: "quindi questo è il risultato dell'abomino? Faust?"
"Si dice che chi ingerisca parte della pietra filosofale riceva la Lunga Vita e la guarigione da ogni male. Hai idea di cosa si possa ottenere assumendo questa tintura? Essa porta con sé la sapienza divina, con questa nessun segreto può più essere precluoso.. è la chiave finale per ogni mistero terreno e celeste, è la porta maestra per ogni comprensione. Finalmente un uomo potrà arrivare a comprendere la creazione nella sua totalità, e forse anche il piano divino; i pensieri dell'uomo che combaciano con i pensieri di Dio"
Lo sguardo dell’alchimista era rivolto al sole calante, la faccia contratta in un sorriso disumano, i battiti del cuore galoppanti, ogni secondo che passava recava il timore che potesse stappare la fiala e berne il contenuto. In quell’attimo entrambi tacevano e tutto sembrava sospeso, i pensieri di Gerard erano una tempesta, la sua coscienza sull’orlo di essere infranta, aveva provato a rivolgersi mentalmente a Dio ma sembrava che in quella stanza non ci fosse.
Perfino la pioggia aveva cessato di scendere in un lungo silenzioso momento. Poi riprese.. ora Gerard sapeva cosa fare. Doveva agire prima che l'amico decidesse di bere il risultato del suo peccato. Senza esitare, gli strappò la boccetta dalle mani; la faccia di Faust era ancora contratta dallo stupore quando su di essa calò pesante fermacarte di legno che teneva sulla sua scrivania. Un colpo, poi un altro, e un terzo; gli zampilli di sangue dello stesso colore della fiale  si erano levati alti ed avevano colorato il tavolo ed il saio del fratello. Così cadde Faust l’alchimista, senza il tempo di lamentarsi, né quello di godere della propria opera;  con la bocca semiaperta e gli occhi rotondi inchiodati sul assassino. 
Sul pavimento si stava allargando una macchia calda e rossa, il frate indietreggiò distrattamente fissando il sangue, la faccia ancora sconvolta e congestionata; grandi singhiozzi iniziarono a interrompere il silenzio, poi riempito da un pianto convulso.
Cadde goffamente nell’angolo della stanza, la veste intrisa di lacrime salate, mentre si teneva la testa fra le mani tremanti;  giacque in quello stato per dei lunghi minuti piangendo senza sosta.
Gli era chiara l’origine della sua disperazione ed essa non nasceva da ciò che aveva appena fatto, quanto piuttosto da ciò che stava per fare.
Con un gesto veloce prese la fiala e la bevve in un sorso.

giovedì 2 giugno 2011

Forbidden door

Finalmente giunto nel deserto.
L'aria secca, il cielo cupo, la terra chiara spaccata dalla siccità. C'era la pace che solo la morte poteva dare, una pace di un altro mondo. 
Davanti a me le rovine di antiche città mai esistite, puro ignoto solidificato in blocchi di roccia, scolpita dallo scorrere impietoso del fiume del tempo.
Perfino il sole, sembrava avere un rispettoso timore di quel luogo. Sacro sacrilegio. Un sole foriero di strani colori saliva del crepuscolo, le ombre lunghe come orizzonti dipingevano le zolle spaccate su cui camminavo. Nuvole bianche e grigie scorrevano su un cielo velato, fumoso, mai libero e mai uguale.
Davanti a me le rovine parlavano fra di loro in un linguaggio morto, incessantemente, ogni parola risuonava di tutta l'antichità di cui era figlia.
In quella landa mentale mi avvicinai ad una porta di pietra, su di lei le statue dei demoni Pazuzu e Belial mi gurdavano dai loro occhi solcati, potevo sentire le benedizioni piovere dalla loro presenza, a cui facevano eco solo il rumore delle crepe sulle statue.
La porta stava lì, chiusa ma non proibita. 
Ormai ero stato strappato al mio mondo, non era più saggio tornare ad esso col pensiero, un uomo deve camminare in avanti. Consapevole di non avere scelte, del mio fiato sempre più corto e della folle paura che mi bagnava la mente, chiusi gli occhi e mi accorsi della volta stellata impressa nell'interno mie palpebre nere. Bagnando la terra col sudore, la mia mano spingeva la ruvida porta, uno scatto d'orgoglio e la porta si spalanca. Spalancata come l'arrivo della primavera, il mondo cambiava, ingoiato, come ingoia un serpente, da una luce famelica. Pace, nulla, ogni muscolo è rilassato. Davanti a me un chiarore bianco, poii boccioli che fioriscono continuamente e scompaiono, e finalmente l'origine del tempo.
Stava lì, aveva l'aspetto di una bambina, giaceva in piedi su un altare di cielo notturno condensato, giaceva da eoni da lei stessa generati.
Fiumi di tempo liquido bagnavano un terreno che non esisteva, mentre lei generava il tessuto invisibile dello scorrere degli eventi, versandolo verso tutto ciò che non era lei.
La mia mente stava per spezzarsi quando fui abbagliato da una luce familiare, il mio sole, di nuovo al suo posto... nel vecchio mondo che avevo perso. Ma era nuovo, rinato nel suo sangue. Capii che il sangue era mio, perchè il mondo che mi circonda e' generato da me stesso, e questo sapeva il profumo di qualcosa di appena nato.
Finalmente sorridente, mi addormentai sotto l'albero di pesco.

La cometa

 Da su il crinale guardava il cielo, era buio e le stelle scintillavano impudenti.
Era un buio pieno, un ventre gravido di vita che si esprimeva in miriadi di piccoli occhietti luminosi.Guardando quel cielo sentiva uno strano calore salire nel suo corpo, una sorta di antico respiro caldo, uno sbadiglio di vita del quale non aveva ormai più ricordo. Col fragore del silenzio, sopra la sua testa, passava la grandiosa cometa, che attraversava i cieli come una spada dolce, che indica ma non ferisce. In quel luogo senza rumore, lui osservava l’astro che attraversava l’aria, tramite lui poteva scorgere pianeti lontani, pianeti dove la vita traboccava di vita. Poi si accorse di essere la cometa, e con tutta l’arrendevolezza del universo, cedette e si catapultò nel cuore del mondo

martedì 31 maggio 2011

Sotto il cielo del tramonto camminava in avanti, un passo dopo l'altro, un passo dopo l'altro.
In mano una piccola valigia con dentro il necessario, perchè a volte il necessario sa star dentro una piccola valigia. 
Sotto il sole del tramonto andava avanti, con passo deciso e con uno strano sorriso disteso. 
Quella leggera espressione nasceva dal vuoto del suo cuore, una conquista finalmente ottenuta dopo molte vittorie e molte sconfitte.
Camminava sereno con quella leggerezza, poichè sapeva che un cuore vuoto può solamente essere riempito.
Il vento si era levato e giocava senza timore con la sua giacca, sopra la testa il rossore del cielo aumentava di saturazione, trasformando la volta celeste in un esplosione di nuvole arancio e porpora.
Il viso era illuminato dal gigantesco occhio antico e stanco del sole che tramonta, uno sguardo che lascia questa terra per nascondersi dietro il mare e cercare riposo.
Stava scendeva lentamente la collina quando notò la bambina dagli occhi azzurri giocare presso la strada, era sicuro di averla vista ancora nei paraggi, ma non si era mai soffermato ad osservarla veramente.
Ora lei lo stava guardando neglio occhi, e lui con aria distratta ricambiò lo sguardo.
In quel momento, e solo in quel momento, si reso conto della vastità del mondo che lei celava, trasparente dietro l'azzurro dei quei due specchi rotondi c'era uno spazio infinito che non era di questo mondo, che brillava di una luce distante, un luogo che si può conoscere solo poche volte nella vita.
Negli occhi di lei scorse il riflesso dei suoi e sorrise, perchè capì che parte di quel mondo era anche il suo.
La mano sinistra si posò lentamente sul capo della ragazzina, un gesto d'approvazione, ringraziamente e saluto nello stesso tempo; i piedi ripresero a marciare.
Non poteva fermarsi ora, il suo corpo non voleva fermarsi ora, ciò che più di ogni altra cosa gli premeva era di giungere finalmente alla sua meta.
La fine del suo viaggio era dietro il mare, precisamente nel luogo dove il sole si ritira dopo aver preso congedo dal mondo, nella sua stessa dimora. Cercando quella casa era giunto finalmente al porto di quello strano e familiare paese, lì lo attendeva l'intenso blu di un oceano mai percorso, ed il legno mai troppo sicuro di una caravella.
Salii facendo scricchiolare le assi sotto i piedi, ed in pochi momenti il blu cobato  fu solcato dalla scia bianca della nave: sembrava una freccia diretta al tramonto, uomo caravella e maer come in un unico grande dardo in corsa.
Mentre la salsedine gli accarezzava il volto, mentre si compiaceva degli ultimi tiepidi raggi di sole, si girò solo per un momento verso il porto. Vide in lontananza quella bambina e capii che anche lei stava cercando qualcosa.. forse non la sua stessa meta, ma qualcosa che solo lei consoceva. Sussurò al vento qualcosa e prese congedo da quei pensieri, non poteva più voltarsi, ormai niente era più necessario.
Le era grato, ora il suo cuore era già un po' più pieno.

Il seme

Nonostante da tempo imperversasse la crisi economica e la gente faticasse ad arrivare alla fine del mese, loro si incontravano ugualmente.
Non erano in molti, forse un ventina, solo in sei quelli che dirigevano e coordinavano in prima persona le operazioni
Come ogni giorno si trovarono dopo mezzogiorno davanti alla chiesa del paese, il cielo era limpido e la piazza sembrava luminosa di luce propria. Con un sole cosi’ splendente anche i piccioni che di solito infastidivano i turisti apparivano come degli uccelli nobili.
Si riunirono nell’antro della cappella, in quella che in tempi antichi era un altare dedicato al culto di Venere, ma che ormai nessuno piu’ ricordava. Si riunirono come al solito, come ogni martedi’ della settimana, tutti disposti a cerchio in questa piccola ma accogliente stanza circolare. La luce filtrava libera dalle inferriate delle finestre, proiettando uno strano gioco di ombre e rendendo il momento ancora piu’ solenne.
I sei coordinatori erano persone di spicco, ben affermate nella societa’ e tutte apprezzate per la loro prodigalita’ verso il prossimo e il loro impegno nel sociale; gli altri venti li stimavano molto e li consideravano una guida importante a tutti i livelli.
I sei si misero in maniera da formare un cerchio, ai loro piedi un mosaico ritraeva un il sole nero, che a dispetto del nome era un antico simbolo di iniziazione e di conoscenza. La meditazione inizio’, le venti persone si presero per mano rimanendo in piedi e chiusero gli occhi. Anche i sei li chiusero e rivolsero i palmi delle mani al simbolo sul pavimento. Erano convinti di poter veicolare tramite quel mezzo l’energia generata dai pensieri dei loro confratelli, dirigendola verso quella che chiamavano ‘coscienza collettiva’ ed inserire in essa le forme-pensiero così generate. 
Pensavano di poter influenzare lo scorrere degli evente, chiedevano un cambiamento, per il loro paese e per il mondo. Veicolavano pensieri genuini, desiderio di tornare alle origini, alla purezza che l’uomo aveva perduto mescolandosi senza ritegno con la sozzura del mondo. Anelavano ad un uomo dal sangue e dall’animo puro, che riconoscesse i segni della natura e che vivesse secondo le leggi della creazione e dell’evoluzione. Volevano un mondo di pace, un mondo pulito, un mondo unito e in armonia. 
Dopo quaranta minuti la sessione era terminata, come di consueto si scambiarono amichevoli saluti e sinceri ringraziamenti; e con il cuore libero da fardelli ognuno ritorno’ alle proprie mansioni giornaliere. Tuttavia il gruppo era saldo e le intenzioni nobili; il circolo era destinato a crescere al di la’ di ogni aspettativa.
Qualche anno dopo raggiunsero il culmine dello splendore. Le loro sessioni divenenro sempre piu’ elaborate e intrise di significati, e cosa più importante,  sembrava che stessero davvero infondendo un forte cambiamento nel mondo. Ora erano una moltitudine, non si riunivano piu’ nella piccola cappella, ma in un antico castello concesso da un facoltoso confratello.
Decisero che il nome della nuova confraternita sarebbe stata “Thule”, come la mitica città del nord, e che il simbolo dell’uomo nuovo a cui anelavano sarebbe stata la sacra swastika sanscrita..
Non sapevano che avevano innestato un seme che sarebbe maturato qualche anno dopo, gettando l’intero mondo nella piu’ grande e feroce guerra che mai si fosse vista.
Non sapevano che avevano creato quello che piu’ tardi sara’ conosciuto col nome di nazismo.

domenica 16 gennaio 2011

Solo un'ombra

La nebbia intorno era leggera, accarezzava i tronchi degli alberi e poi spariva.
Le foglie secche creavano un tappeto di colori dai toni accesi in tutte le tinte del marrone e dell'arancio, il bosco sembrava acceso in un silenzioso incendio di colori.
Avanzava con passo leggero, controllato e fluido. I piedi calpestavano le foglie senza un rumore, il respiro era impercettibile. Sapeva che poco più avanti si trovava il suo obiettivo, non doveva farsi notare fino a missione conclusa, e la missione si concludeva solo dopo aver fatto rapporto ad Iga. L'odore nell'aria era inconfondibile, odore di nebbia e di natura bagnata, caratteristico del periodo di fine autunno.. era strano ma faceva sempre caso agli odori. La sciarpa di stoffa nera che  proteggeva bocca e naso gli dava un caldo senso di sicurezza, aveva sempre amato quella calda carezza durante le sue uscite. Solitamente gli incarichi assegnatili si svolgevano durante la notte, tuttavia ultimamente veniva reclutato sempre più spesso per agire nelle ore diurne, un chiaro segno di stima nelle sue capacità. Continuava ad avanzare piano, sentiva la leggera brezza che sfiorargli le orecchie, il rumore di qualche castagna cadere, ed un forte, presente silenzio. Era davvero difficile non farsi notare con tutto quel silenzio. Tuttavia lui non esisteva. Era solo una solitaria ombra. Finalmente aveva contatto visivo con la sua vittima, lo vedeva mentre di spalle camminava lentamente verso il bosco. Poteva leggere dalle sue movenze che stava gustandosi l'aria della stagione, durante quella sua piccola ed imprudente escursione pomeridiana.
Come tutti i nobili peccava di egocentrismo, recarsi così solo senza scorta nei boschi ai confini del tempio era un'imprudenza degna di chi divide la gente in categorie. Forse il decidere del destino di tante persone l'aveva reso troppo sicuro di sè; ora l'unica cosa sicura era la sua morte.
Ma d'altra parte tutto questo non era affare del suo inseguitore, lui colpiva con armoniosa freddezza chi gli veniva ordinato di colpire,  proprio questa mancanza di interesse lo rendeva l'arma che era. La nebbia era diventata leggermente più densa, ed alle spalle del nobiluomo si era materializzato un sordo rumore, come un tonfo; il tempo di voltarsi e chiedersi cosa potesse essere stato: un cervo? un uccello? o un cane randagio?  non c'era niente. Di sicuro c'era qualcosa sull'albero alle sue spalle, da lì l'ombra aveva spiccato un balzo e con la velocità di un sussurro aveva tinto l'acciaio della sua corta lama nella giugulare della preda.
Senza rendersene conto il nobile giaceva sulla terra umida, rossa per il sangue che usciva dalla gola penetrata. L'ombra lo guardava, quel rosso era perfetto fra le foglie secche.. un colore puro e profondo, ogni volta che lo spillava si stupiva della bellezza e dell'essenza segreta di quella tinta. Ma non doveva pensare, quelle erano attività per uomini, lui aveva rinnegato il suo status di persona quando aveva iniziato l'allenamento al villaggio Iga quindici anni fa.La nebbia era divenuta ancora più insistente e densa, l'ombra si era assimilata ad essa, trasportata sulla via del ritorno insieme alla brezza divenuta più fresca.

lunedì 3 gennaio 2011

Solito


Sono stato ad una festa. E poi ad un'altra. Solita cosa.
Soliti cadaveri di plastica che ballano, troie tirate a lucido ed agghindate come alberi di Natale.
Vaffanculo, è l'ultima volta che vedo questo spettacolo triste.


Questa è la mia dichiarazione di guerra al mondo.
Tu che leggi difficilmente sei nella mia trincea...

mercoledì 29 dicembre 2010

Incontro

L'auto fumante giaceva in fianco alla strada, il cofano stringeva in un abbraccio di lamiere il lampione dell'illuminazione pubblica. Nessuna poteva assistere a quella scena inghiottita dal buio della notte, in un luogo semideserto, in una strada che nessuno percorreva. L'uomo scese dalla macchina sorpreso di ritrovarsi praticamente illeso, profondamente scosso da ciò che aveva visto prima di perdere il controllo del mezzo, scosso dal ricordo della visione di quell'ombra viva che lo aveva impaurito fino a farlo uscire di strada. Quella visione di un attimo era ora al primo posto fra i suoi pensieri, prima ancora della sua incolumità, prima ancora dei danni alla macchina, prima di voler capire dove si trovasse. Fece subito mente locale per capire cosa fosse successo: ricordò le due luci rosse circolari riflesse dallo specchietto, luci troppo intense e vicine fra di loro per essere i fanali di un auto... poi l'incredibile, i due tondi scarlatti che salgono fino al cielo e sovrastano la vettura, ed intorno a loro una figura nera, spettrale, un'ombra dalle grandi ali nere. Poi il botto ed ora la testa che doleva e la macchina che fumava. I suoi pensieri congelarono appena sentì dei rantoli sommessi provenire alle sue spalle, il loro ritmo terribilmente simile a quello di un respiro. Tutti i suoi nervi si tesero all'unisono e lungo la schiena si fece strada il più gelido fra tutti i brividi che avesse mai provato. Dietro di lui lo scrutava la tremenda creatura, alta almeno due metri e nera come la pece, le ali ripiegate sul corpo tozzo sorretto da gambe simili a quelle umane. La testa era sostenuta dal tronco, priva di collo, gli occhi rotondi ed enormi brillavano come due stelle di altri mondi.. l'uomo sentì la mente cedergli prima delle gambe, mosse un lento passo indietro guidato da puro istinto di conservazione, poi la paura gli si serrò intorno impedendo movimenti e pensiero. Ed allora l'essere parlò: "Salve uomo". La voce era finta e profonda, più simile ad un suono continuo, estremamente basso, faticosamente modulato in consonanti e vocali. Di fronte a tanto stupore ogni convenzione mentale era saltata, e l'autista automaticamente rispose con un debole "salve" senza avere la forza di rendersene conto. L'essere lo scrutava in silenzio.La domanda uscì da sola, irrazionale, come se l'uomo non potesse controllare ciò che diceva: "tu sei.. un dio?" Di nuovo la voce atonale: "Non lo sono, ma comprendo la tua domanda".
"Cosa sei?"
"non comprenderesti"
"cosa.. cosa vuoi da me?"
"prenderti"
A quella risposta, la leggera calma guadagnata dal pensiero di parlare con un essere senziente si spezzò, lacrime calde cominciarono a rigare le guance dell'uomo, lacrime di una disperazione sconosciuta.
"Non spaventarti, la paura è inutile"
"perchè proprio io? che ho fatto?"
"non comprenderesti"
"... mi mangerai?"
"non mi servi per nutrirmi"
L'uomo guardava lo strano essere provando una miscela di emozioni mai provate prima in tutti gli anni della sua vita. Era spaventato, ma provava anche uno strano senso di timore reverenziale, era un qualcosa che non doveva e forse non poteva esistere; parlare con lei era come parlare con una porta aperta sull'infinito.
"da dove vieni?"
"da un mondo"
"un altro pianeta?"
"no, ci sono mondi all'interno di mondi"
"non voglio venire con te"
"tu sei mio"
Solo allora l'uomo notò il terribile odore di ammoniaca che impregnava l'aria, era così intenso da bruciargli il naso ad ogni suo rapido respiro.
"sei un demone?"
"no"
"ma allora cosa... che cosa sei?" s
inghiozzava sconvolto.
L'essere taceva.
Poi parlò: "al mondo scompaiono molte persone, il mondo non è come pensate. Non è come voi lo pensate" la sua voce era veramente qualcosa di terribile. L'uomo non sapeva dove stesse per essere condotto, in che veste, né con chi o forse cosa.. ma tutto ciò non aveva più importanza, niente aveva più senso logico. La sua mente piangeva.. pensò a quanto miseri sono gli uomini, pensano di aver compreso il mondo solo perché hanno occhi per guardarlo e orecchie per sentirlo, ma non conoscono neppure la superficie di loro stessi. Guardano le stelle e prestano loro così poca attenzione, hanno l'infinito dentro di loro e lo rifiutano. Il misero umano, autista di automobile dai calzoni bagnati di lacrime, scomparve senza lasciare traccia insieme alla creatura. Nessuno li vide.
Il lampione dell'illuminazione pubblica si spense.